Puccini, la Turandot per antonomasia
Sebbene si sappia che la storia originale di Turandot non nasca con Puccini ma ben prima, con la commedia di Carlo Gozzi del 1762; inevitabilmente, quando si pensa a quell’opera, anche nella sua versione teatrale, è difficile non fare riferimento a quella musicata dal grande autore che potremmo definire: la Turandot per antonomasia.
Turandot un’opera del 1762
Rispetto alla Turandot di Puccini, l’originale del Gozzi si caratterizza per un tono ben diverso, leggero e scherzoso, volto ad incarnare tutti gli stereotipi della “commedia dell’arte”, per far fronte e tenere testa all’avanzare del nuovo stile goldoniano. Il tema trattato era attualissimo per l’epoca, dal momento che la Cina era l’unica potenza in grado di competere con la Serenissima per la supremazia sulle rotte commerciali ad oriente; quindi, è chiaro come le intenzioni fossero di carattere parodistiche più che celebrative.
Questo spirito ritorna nello spettacolo messo in scena al teatro Le Salette da Stefano Maria Palmitessa e la sua compagnia. Infatti, scavalcando di netto Puccini, il regista ha scelto di mettersi a confronto direttamente con l’opera del Gozzi, affidando la drammaturgia a Francesca Natale Barreca che, in linea con l’originale, colora il testo con delle godibili parti in veneziano, come quelle ben recitate dai tre consiglieri: Giovanna Castorina, Truffaldino; Arina Sazontova, Brighella; Simone Proietti, Tartaglia.
Bravi gli attori, Mary Fotia nei panni della Balia; Alessandro Laureti nelle vesti di Timur e Altoum; Carmen Pompei in quelle di Elmaze sua moglie.
Personaggi dalla minor complessità
A mio parere, questa versione della Turandot, semplificando eccessivamente la trama, toglie complessità e forza a personaggi centrali nel dramma pucciniano. In particolare, la figura di Calaf, interpretato da Giovanni Prattichizzo, perde la sua possanza e risulta penalizzata al massimo. Questa lettura del testo volutamente lo indebolisce, riducendolo ad un’effemminata gallina spelacchiata, effimera macchietta, più grottesca che divertente. Nello stesso tempo, l’immagine di Turandot, metaforicamente gallo, emerge prepotentemente, annunciando con lo sbucare della sua cresta tutti gli incipit dei dieci atti. La convincente interpretazione, per quanto bizzarra e giullaresca, di Marco Laudani dipinge un’altezzosa, capricciosa e mascolina principessa; in un ribaltamento dei ruoli che mi è parso esasperato, caricaturale; dato l’annichilimento del maschile, ridotto per l’appunto a gallina; contro un’esagerata esaltazione di un femminile disturbato: superbo, anaffettivo e presuntuoso.
L’idea dell’In mezzo
Tuttavia, l’elemento caratteristico dello spettacolo di Palmitessa è la struttura, volutamente elaborata, che il regista definisce con l’espressione “nascondere per rivelare”.
Il boccascena del teatro Le salette, già contenuto di per sé, viene ulteriormente ridotto dal regista, che lo struttura, attraverso dei grandi pannelli, in due ulteriori spazi scenici. In questi “metateatri” gli attori, non del tutto visibili, sono costretti a destreggiarsi come se fossero in un teatro di burattini. Attraverso questo procedimento, il regista amplifica la distanza tra attori e pubblico che, dunque, si ritrovano separati, non solo dalla “quarta parete” ma anche da queste “altre due soglie” che vengono a inframmezzarsi nello spazio antistante la scena, amplificando quell’idea dell’in mezzo così cruciale per lui, per citare il regista.
Questo espediente, sebbene renda molto intrigante la struttura, aumentando i vedo non vedo e le possibilità di colpi di scena, con gli attori che agilmente compaiono da angolazioni impreviste; dall’altra, mette alla prova gli spettatori, a cui è richiesta un’attenzione ben maggiore, dato il minor coinvolgimento fisico.
Un pubblico indisciplinato
Nello specifico, il risultato non è stato felice, dal momento che il pubblico, anziché essere più attento, è stato davvero indisciplinato; comportandosi proprio come ad un teatro dei burattini in una fiera paesana:, sgranocchiando e chiacchierando rumorosamente per la maggior parte del tempo. Atteggiamento di cui, forse, è responsabile anche il teatro che, magari, potrebbe evitare di vendere snack da consumare in sala.
L.P.