Il filo di Mezzogiorno
Il teatro Argentina chiude la stagione teatrale con “Il filo di Mezzogiorno”, tratto dall’omonimo libro di Goliarda Sapienza, del 1969, nell’adattamento di Ippolita di Majo, per la regia di Mario Martone.
Uno spettacolo profondissimo, interpretato da una splendida Donatella Finocchiaro e da un talentuoso Roberto De Francesco, la cui visione, a mio parere, potrebbe essere vantaggiosa per molti. Dal momento che, indipendentemente dall’opinione che si ha della psicanalisi e dell’autrice, “Il filo del Mezzogiorno” innesca inevitabilmente una riflessione sul proprio vissuto personale.
Goliarda Sapienza
Goliarda Sapienza è una scrittrice brillante, “scoperta” recentemente grazie al marito, Angelo Maria Pellegrino, che ha curato la pubblicazione dei suoi testi, caratterizzati da una notevole intelligenza, capacità di analisi e approfondimento di nevralgiche dinamiche umane. Rapporti di coppia, familiari, matrimonio, maternità vengono affrontati senza filtri, con una lucidità e un coraggio inediti per l’epoca e scottanti ancora oggi.
“Il filo di Mezzogiorno”: una disamina della psicoanalisi freudiana
In particolare, trovo che “Il filo di Mezzogiorno” si possa leggere come un’attualissima, acuta, pregnante disamina del fallimento della psicoanalisi freudiana. La scrittrice, attraverso un racconto autobiografico da pelle d’oca, demolisce, seduta dopo seduta, la teoria dello psichiatra viennese fino a culminare nella sconfitta dell’analista.
Gli attori
Donatella Finocchiaro
Gli attori in scena, Donatella Finocchiaro e Roberto De Francesco, sono abilissimi nell’interpretare i loro personaggi. La Finocchiaro, nei panni di Goliarda, è convincente sin dall’inizio; quando, con severità, ripercorre gli anni dell’Accademia d’Arte Drammatica. Struggente al principio della terapia, quando appare disorientata a causa dei vuoti di memoria procurati dai disumani elettroshock. Poi, gradualmente, sempre più donna e più sicura di sé.
Roberto De Francesco
Roberto De Francesco è perfettamente a suo agio nel ruolo del “medico dei pazzi” freudiano.
Inizialmente spocchioso e saccente, imbevuto di teoria, poi umiliato e sopraffatto dall’emergere di una figura femminile che, per quanto instabile, è comunque forte, passionale, conturbante, tanto da farne emergere tutta l’inadeguatezza al compito che si era prefissato. Lo psichiatra fallisce miseramente la cura, facendo naufragare uno dei cardini fondamentali della psicoanalisi: la separazione medico paziente; andando, addirittura, a scardinare e confondere il piano professionale con quello personale.
La regia di Mario Martone
Tutte queste dinamiche interne sono magistralmente comunicate, oltre che dagli attori, da una magnifica regia che, servendosi di un potente apparato scenografico le amplifica rappresentandole visivamente. Il palco, infatti, risulta suddiviso in diversi piani.
Un soggiorno, duplicato due volte, identico. Una parte del palco lasciata volutamente oscura, vuota disadorna. Coscienza e inconscio. Finché il rapporto formale e professionale “regge”, i due protagonisti abitano ciascuno un proprio “interno”; vivendo ed interpretando la relazione medico – paziente secondo le proprie categorie, in maniera del tutto autonoma dall’altro. Questo si risolve nell’impossibilità di un dialogo, per cui inizialmente si traduce in monologhi, in cui i due protagonisti parlano senza capirsi, ovvero: non comunicano.
L’evoluzione del rapporto psicoanalitico
Poi, man mano che il rapporto evolve – o, per meglio dire, si deteriora – e la “signora” acquista forza, le dimensioni interne dei due – rappresentate dall’articolata scenografia – iniziano a muoversi, a mischiarsi, a compenetrarsi. In una dialettica mortale che si conclude con il prevalere dell’uno sull’altro.
Il fallimento della vecchia psicoanalisi
L’esito della terapia, non decreta solo l’idea di impossibilità di cura, ma anche il trionfo e, nello stesso tempo, la negazione della malattia mentale. Una visione amara, senza scampo, quella di Goliarda Sapienza che sembra uscir fuori dallo spettacolo per rispecchiare l’ideologia basagliana che, in quegli anni stava contaminando buona parte della sinistra ex sessantottina, fino a concretizzarsi in legge nel 1978.
L.P.