Una prosa veloce, rapida.
Una cadenza ritmata, studiata nei minimi dettagli.
Sullo sfondo di una scenografia essenziale, costituita da pochissimi elementi sul palco e un susseguirsi di immagini astratte.
Daimon – L’ultimo canto di John Keats
Daimon – L’ultimo canto di John Keats, di Paolo Vanacore, diretto e interpretato da Gianni De Feo, in scena al teatro Lo Spazio dal 2 al 5 febbraio, è uno spettacolo curato in ogni singolo particolare; che racconta, dalla giovinezza, all’età adulta, la storia di James Hillman, psicanalista e filosofo, focalizzandosi sulla sua speciale, personalmente direi “paranormale” connessione con il poeta romantico John Keats.
Gianni De Feo
Gianni De Feo è impeccabile nei panni di Hillman e nel descrivere come, sin dalla giovinezza, lo psicoanalista sia stato accompagnato da questa presenza “divina” che egli ha sempre considerato: la propria nobile guida: il daimon, una presenza divina incaricata di portare a compimento il disegno superiore che l’anima di ognuno di noi ha scelto prima di nascere e di cui si è dimenticato nel momento in cui è venuto al mondo.
La storia narrata ha un che di metafisico e soprannaturale e, senza soffermarci sulla sostanza (personalmente non mi affiderei a uno psicoanalista che sente le voci e che paragona i sogni alla morte) direi che la forma è impeccabile.
Daimon, tra prosa, musica e poesia
Lo spettacolo si dipana tra prosa, che in diversi passi tocca la poesia e la musica, rivelando in Gianni De Feo un autentico attore da one man show, in grado di catturare e appassionare la platea, di emozionarla. L’artista, davvero a tutto tondo, si cimenta in complessi brani musicali di Franco Battiato e Giuni Russo, fino ad arrivare alla citazione dei dervisci rotanti.
Da tutte queste sfumature emerge come Daimon – L’ultimo canto di John Keats sia frutto di un attentissimo lavoro di preparazione. Gianni De Feo trasforma la sua solitudine sul palco in qualcosa di estremamente dinamico. Non solo aiutandosi con la musica, ma mostrando un’eccezionale abilità nel modulare la voce a seconda delle circostanze e mutandola nelle diverse fasi della vita. Il parlato del bambino dell’inizio dello spettacolo è completamente diverso da quello dell’adulto. Il tutto rafforzato dal linguaggio del corpo che lo porta a voltare le spalle al pubblico ogni volta, come protagonista bambino interloquisce con i suoi famigliari. Personalmente ho apprezzato molto la fase dello spettacolo dedicata all’infanzia. Ad un bambino che, costretto a vivere in una condizione di instabilità, sviluppa delle qualità da filosofo ed un’intelligenza agile e brillante che lo porterà a diventare un adulto illuminato, fuori dal comune.
Un viaggio nel tempo e nello spazio
Lo spettacolo si propone come un viaggio nel tempo, dall’infanzia alla maturità del protagonista ma anche nello spazio da Atlantic City all’Italia, fino all’Asia. Come a voler dimostrare l’universalità del pensiero umano e, in particolare, di alcuni concetti riproposti nello spettacolo, come quello di “fare anima”, di “memoria”, di “vocazione” e di “viaggio”, inteso proprio come terapia delle idee.
Daimon: i contributi
Daimon – L’ultimo canto di John Keats si avvale dell’amichevole partecipazione in voce di Leo Gullotta, dei suggestivi arrangiamenti musicali di Alessandro Panatteri e delle opere di Roberto Rinaldi per la produzione di Ipazia Production.
I lavori di Roberto Rinaldi, scorrono, proiettati sullo sfondo durante l’intero spettacolo. E devo dire che queste opere astratte che, a tratti, ricordano la scuola americana del secondo dopo guerra, per alcuni velati richiami all’action painting, conquistano più volte lo sguardo e l’interesse degli spettatori, fungendo come vera e propria cassa di risonanza cromatica alle emozioni suscitate dalle parole dell’attore.
LP