- L’Opera: un’opera d’arte totale
L’opera è uno spettacolo a tutto tondo che colpisce diversi sensi. L’udito, con la musica e il canto; la vista, con le meravigliose scenografie e gli splendidi costumi; il tatto, perché tocca dentro. Insomma, dove non arriva la voce, arriva il sentimento e colpisce il cuore. Poi, quando alla regia c’è un artista del calibro di Ai Weiwei, come nel caso di questa fantastica Turandot, presentata dal Teatro dell’Opera di Roma, il livello sale ulteriormente e travolge la mente, con un incessante gioco di nessi e rimandi che costringe lo spettatore a stare piacevolmente all’erta per tutto lo spettacolo.
Del resto, anche lo stesso Ai Weiwei ha affermato: “Produrre un’opera è un’attività complessa, fatta di tanti elementi; le scene, la musica, i cantanti, gli attori, i costumi, le luci e, infine, ciò che reputo più importante: i video. Perché li ho aggiunti? Penso che la nascita del cinema abbia costituito una seria minaccia per l’opera lirica. Prima i film, poi la televisione, e adesso l’uso diffuso dei video hanno influenzato l’opera, un tempo la forma d’arte più comunicativa e maestosa. Voglio aggiungere i video a tutti gli altri elementi per infondere nuova linfa all’opera, in modo da coniugare una visione estetica più tradizionale a un linguaggio nuovo.”
Premessa
La Turandot è un’opera che mi sta particolarmente a cuore, sin da quando ero bambina, per la fatale storia d’amore che la caratterizza. Mi ha sempre colpito, nella versione più edulcorata con finale di Franco Alfano, il fatto che anche la glaciale Turandot, apparentemente impenetrabile, potesse sciogliersi di fronte alla forza di un amore puro, folle, disposto a rischiare tutto. Tuttavia, anche in questa versione tronca, fedele all’incompiuta partitura pucciniana, supera ogni aspettativa e diventa uno spettacolo abbacinante, per l’occhio e la mente. Anche perché Ai Weiwei, chiudendo la rappresentazione con il toccante sacrificio di Liù, chiama in causa il pubblico, invitandolo a decidere autonomamente le sorti dei protagonisti.
In più, ho scoperto che anche per lo stesso Ai Weiwei, la Turandot rappresenta un’opera dal valore speciale perché durante il suo periodo a New York, tra il 1983 e il 1987, per sbarcare il lunario faceva di tutto e come spiega lui stesso:
“Nel 1987 mi capitò di fare la comparsa nella Turandot; un’esperienza curiosa, considerato che non sapevo quasi nulla sull’opera. La mia conoscenza [di questo mondo] era approssimativa, limitata al poco che sapevo sull’opera di Pechino. Eppure, fu un’esperienza interessante. Così, quando dopo più di trent’anni il Teatro dell’Opera di Roma mi ha invitato a dirigere Turandot, ho accettato. La vita può essere imprevedibile. Quella di Zeffirelli fu la Turandot più costosa e spettacolare che fosse mai stata prodotta. Lui era un regista geniale, viveva per il teatro. Mi colpì la sua capacità di controllare ogni aspetto dell’opera, non solo ciò che accadeva sul palcoscenico, ma anche l’atmosfera che si creava in sala, tra il pubblico. Io vivo in un’altra epoca, per cui la mia lettura dell’opera è diversa.”
La complessità della Turandot di Ai Weiwei
Per tutta la durata dell’opera lo sguardo e il pensiero corrono sul palco, soffermandosi, ora sui cantanti, ora sulle scenografia, poi sulle coreografie, senza tralasciare le proiezioni sul fondo e i costumi.
Ogni minimo dettaglio ha un valore simbolico. Così, La Turandot nella poetica di Ai Weiwei, diventa uno spettacolo politico, un’occasione di denuncia sociale.
Del resto, per usare le parole di Ai Weiwei: “La Turandot è diversa da altre produzioni liriche. Scrivendo Turandot, Puccini cento anni fa ha tentato di dire qualcosa sull’amore, sull’Oriente e sul misticismo, ma quest’opera racconta di catastrofi che risuonano nel nostro presente e nelle esperienze della pandemia, dei moti di protesta, della crisi dei rifugiati.”
Inoltre, La Turandot, a Roma nasce dalla collaborazione tra il celebre artista dissidente cinese, la direttrice d’orchestra ucraina Oksana Lyniv e il soprano, sempre di nazionalità ucraina, Oksana Dyka.
Ai Weiwei
Ai Weiwei è un artista forte, che ha fatto, da sempre, della sua ricerca un mezzo per varcare i confini dell’arte ed affrontare temi scomodi, difficili, di attualità, sviluppando una poetica che gli è costata il carcere e l’esilio. Ebbene, anche in questo contesto lirico, egli è riuscito a parlare di tutto quello che stiamo vivendo dalla primavera del 2020, quando l’opera avrebbe dovuto debuttare a Roma. In altre parole, l’artista è riuscito a comporre un sotto testo forte e imponente che procede di pari passi al testo pucciniano.
Il ribaltamento del progetto iniziale
Certo, rispetto all’opera pensata per il debutto del 2020, quella presentata oggi è completamente diversa. Ai Weiwei ne ha stravolto interamente l’impianto per dare voce alle attuali ed urgenti esigenze espressive. Lo scenario presentato si colloca tra il post apocalittico, o meglio, post pandemico e l’agghiacciante realtà.
“Sono accadute molte cose in questo lungo periodo. Una pandemia dalla quale non siamo ancora usciti. Le proteste a Hong Kong che hanno attirato l’attenzione del mondo. E adesso, la Russia che minaccia la sicurezza dell’Ucraina e dell’Europa. C’è una guerra in corso, e le vittime aumentano di giorno in giorno. L’umanità affronta per l’ennesima volta un antico dilemma: vogliamo mantenere oppure perdere la pace che abbiamo costruito? Siamo ancora incapaci di rispondere a questa domanda.”
Condivido a pieno queste parole di Ai Weiwei, perché penso che oggi l’arte abbia anche il dovere di prendere posizione, di schierarsi a favore della pace e dell’umanità.
Gli atti
Il primo e il terzo atto sono i più politicizzati. Mentre, nel secondo atto, la scenografia si fa più metaforica, apparentemente “meno rumorosa” per lasciare spazio ad una cosmogonia di carattere universale, in cui sfilano immagini di matrice occidentale ed orientale.
Bombe; telecamere; catene del DNA si alternato ai segni dell’oroscopo cinese e ad inquietanti ghirlande dorate che, da una parte mi hanno riportato in mente gli opulenti stemmi barocchi; dall’altra mi hanno fatto pensare ad alcune appariscenti trovate dell’alta moda italiana.
La forza espressiva dell’artista
Devo riconoscere che l’impronta di Ai Weiwei è davvero molto molto forte, a tratti quasi soverchiante, rispetto all’opera stessa. In particolare, ho trovato molto incisivo, soprattutto nel terzo atto, amplificare il valore delle scenografie, attraverso le coreografie dei danzatori. Il terzo atto è sicuramente quello più drammatico, in cui la tragedia è accentuata anche dalla fine mozzata dell’opera, che termina, come anticipato, con il sacrificio di Liù – interpretata da Francesca Dotto. Morte che per l’artista rimanda a quella dei tanti innocenti che, quotidianamente, perdono la vita per ragioni di “forza maggiore” a loro totalmente estranee.
La scenografia e i costumi
“I costumi e le scene sono stati gli elementi più difficili da realizzare. Le scene sono cruciali, contengono l’opera stessa e ne influenzano la rappresentazione, i movimenti, il modo in cui viene concepita e presentata al pubblico. Fin dall’inizio abbiamo immaginato una mappa terrestre tridimensionale che si muove sul palcoscenico e che per certi aspetti evoca le rovine greco-romane, un’immagine che apre diverse possibilità, prestandosi a diverse interpretazioni.”
Come sottolinea l’artista anche i costumi sono parte integrante della grammatica visiva di questa Turandot.
Con dissacrante ironia, Ai Weiwei veste i tre alti ministri imperiali Ping Pong e Pang, che hanno il compito essenziale di guidare il coro, il cui ruolo – dare voce al popolo soggiogato dalla sovrana sanguinaria – è più attuale che mai in questo momento storico, con dei copricapi a dir poco bizzarri; costituiti rispettivamente da un siluro; due telecamere e due dita medie alzate.
Nei costumi dei membri del coro troviamo poi espliciti riferimenti alla contemporaneità, dall’emergenza Covid; alle violente manifestazioni di Hong Kong.
In tutto questo, non mancano i riferimenti più lirici alla cultura orientale. Secondo Ai Weiwei:
Un tema centrale dell’opera è il misticismo orientale, rappresentato dal personaggio della principessa bella e crudele. Quella principessa esiste ancora e continua a emanare il suo mistero in un modo tutto suo. Continua a stupire il mondo, e molte persone si sacrificano in suo nome. La sua figura è densa di significato, anche oggi, nel nostro mondo.
Così, la Turandot di Ai WeiWei si presenta sul palco con un elegante abito, rigido e avvolgente, che, allo stesso tempo, ne esalta la silhouette, bloccandone quasi i movimenti; tanto da poter ricordare una via di mezzo tra un’armatura e una forma di costrizione.
Per chiudere, devo dire che, a mio parere, Ai Weiwei non ha fatto mancare neanche i riferimenti favolistici, come il rospo con cui entra in scena Calaf – interpretato da Michael Fabiano – che, per me, allude all’elevarsi della sua natura con il procedere del racconto.