Una storia difficile quella di Vaslav Nijinsky.
Una storia di malattia, di soprusi, di violenza.
Ma anche, una storia di talento, arte, bellezza.
“Nijinsky, il buffone di Dio”
Come fa intuire il titolo dello spettacolo di Antonio Mocciola e Diego Sommaripa: “Nijinsky, il buffone di Dio”; Vaslav Nijinsky, famoso ballerino russo, che rivoluzionò la storia della danza, fu un genio prigioniero, vittima dei suoi amori e, come molti artisti, del suo talento.
In scena al teatro Elettra di Roma, dal 10 al 12 giungo 2022, con Andrea Cancelliere nelle vesti del talentuoso étoile; Francesco Giannotti nei panni del Sergej Djagilev, mecenate e manager del ballerino, nonché suo padre – padrone e fondatore della famosa compagnia Ballets russes e Clara D’Afflitto Morlino in quelli della discussa moglie, la contessa ungherese, Romola de Pulszky. Il Nijinsky di Mocciola, con regia di Diego Sommaripa, movimenti scenici di Ilenia Valentino e musiche originali di Gianluigi Capasso, ci induce a riflettere sul binomio genio follia.
La storia raccontata da Antonio Mocciola, infatti, può essere letta come “Un Viaggio lancinante, dark, di liquida e onirica follia”, per usare le parole dell’autore.
Oltre il binomio arte e follia
Lungi dal voler proporre il solito cliché dell’artista pazzo, ormai ampiamente superato, lo spettacolo di Mocciola indaga profondamente le dinamiche che fecero sprofondare il talentuoso ballerino nella psicosi; mettendo in luce come coloro che maggiormente amarono, di un amore perverso e malato, Nijinsky furono la sua sfortuna.
In particolare, lo spettacolo si focalizza sui rapporti, che oggi definiremmo tossici, con il suo manager prima e, poi, con la consorte.
In modo crudo, brusco, autore e regista, ci fanno affondare nella psiche del protagonista che ripercorre in un delirio, a tratti apparentemente lucido, rabbioso e malinconico, i momenti cruciali che lo portarono dalla fama alle fame.
Il rapporto con Djagilev
Sin dalla prima scena, appare evidente come il rapporto tra Nijinsky e Djagilev fosse un rapporto impari, con tendenza sadomasochistiche, in cui l’uno fu vittima e, allo stesso tempo, carnefice dell’altro, in un gioco al massacro senza vincitori ma solo vinti. Nel quale il fragile Nijisky era destinato a soccombere vampirizzato dall’assetato Djagilev e schiacciato, dall’altra parte, anche dalla moglie.
Il rapporto con la moglie
Romola de Pulszky, viene rappresentata in tutta la sua lucida freddezza calcolatrice. L’autore la
definisce: mistica e disperata. A mio parere, anche lei, come Djagilev, non fu una vittima, e si legò a Nijinsky tramite un rapporto che ebbe ben poco a che fare con l’amore disinteressato. Del resto, penso che una persona disperata sia disposta a tutto pur di uscire da quello stato. In altre parole, potere, fama, gloria, il desiderio cieco e malato di una maternità “importante” fanno di Romola un altro vampiro che succhiò al giovane ballerino quanto era rimasto della sua vitalità.
La delicatezza del talento
Questo spettacolo è davvero interessante per riflettere sul fatto che gli artisti non sono pazzi ma, certo, possono impazzire. In particolare, quando il loro talento diventa preda di aguzzini che li sfruttano come macchine per ottenere soldi e fama.
Trovo questo tema estremamente attuale, dal momento che queste dinamiche erano diffuse in passato – il caso più eclatante e conosciuto è sicuramente quello di Van Gogh; quanto nel presente – viene in mente il caso Amy Winehouse. Il drammatico denominatore comune, nella maggior parte dei casi, come accadde anche nella tragica vicenda di Nijinsky, è che il pericolo per questi artisti, dall’identità delicata, in bilico tra fantasia e realtà, proviene dalle persone a loro più vicine. Parenti, amici, fratelli, amanti che spacciando la loro invidia cieca per amore, la loro avidità per interesse, in realtà manovrano e schiacciano l’altro fino ad annullarlo.
La bravura degli interpreti
A teatro mi hanno colpito gli alti e bassi di Nijinsky, acutamente interpretato da Andrea Cancelliere. In particolare, nel passare da stati di esaltazione delirante totale: “io sono dio”, a momenti drammatici di perdita completa dell’identità e annientamento del sé: “vorrei non essere”; “Senza luce mi sentivo al sicuro”.
L.P.